Maksim Siverskij
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Maksim Siverskij
Uno dei luoghi più caldi sulla mappa dell’Ucraina, ancora sotto attacco da parte della Russia, è Mariupol, una città sulla costa del mare di Azov. Circondati sin dai primi giorni di guerra, continuamente bombardati, i suoi abitanti sono da molto tempo senza elettricità, acqua, gas, sistemi di comunicazione, cibo e medicine. Ogni giorno persone innocenti perdono la vita. Maksim Siverskij lavorava come ingegnere informatico nella nostra filiale ucraina – Polaris Vision Ukraine – quando si è recato a Mariupol a trovare i suoi genitori, e improvvisamente si è ritrovato ad essere ostaggio della guerra. Il 26 febbraio avrebbe dovuto far ritorno a Kyiv, ma dire che la guerra ha modificato i suoi piani sarebbe riduttivo: la sua vita è stata sconvolta.
Fortunatamente Maksim è sopravvissuto ed è riuscito a fuggire dall’inferno. Oggi siamo con lui in Lituania, dove è arrivato in aereo tre giorni fa. La nostra conversazione riguarda dunque un uomo che si ritrova in una zona di guerra: ciò che ha dovuto affrontare, gli accorgimenti che hanno aiutato lui e la sua famiglia a sopravvivere, e il viaggio tormentato che ha dovuto intraprendere per mettersi al sicuro.
Nonostante i continui discorsi relativi al pericolo di una guerra, poche persone in Ucraina pensavano veramente che fosse sul punto di scoppiare. Risolvere contenziosi con le armi nel ventunesimo secolo appariva qualcosa di troppo stupido e inconcepibile. Ma il 24 febbraio la guerra è realmente cominciata.
Quella giornata a Mariupol è stata tranquilla, non ci sono stati atti di guerra in città, con l‘attacco russo indirizzato soprattutto su Kyiv e Kharkiv, proveniente dalla Bielorussia. “Se qualcuno non mi avesse detto che la guerra era iniziata, non lo avrei mai immaginato”, ricorda Maksim.
È stata subito introdotta in Ucraina la legge marziale, e tutte le vie di comunicazione e i collegamenti sia interni che internazionali sono stati interrotti. Gli spostamenti all’interno del Paese si sono paralizzati. Successivamente queste restrizioni sono state rimosse, ma durante i primi giorni di guerra la gente doveva rimanere nel luogo dove si trovava.
La situazione a Mariupol ha iniziato poi a mutare rapidamente, e la vita in città ha cominciato ad assomigliare alle scene di un film apocalittico. I combattimenti nelle vicinanze di Mariupol sono iniziati il 25 febbraio, a partire dalle campagne al di fuori della zona urbana, ed erano limitati alle forze armate. Poi i bombardamenti e le esplosioni si sono avvicinati sempre di più. Il 28 febbraio la fornitura di elettricità si è interrotta. Dopo poche ore la stessa sorte è toccata alla fornitura di acqua, e il mattino successivo è stata la volta del gas. La connessione ai dispositivi mobili non funzionava più e i negozi restavano chiusi. Il cibo deperiva rapidamente dato che non c‘era possibilità di conservarlo adeguatamente. Una volta che i dispositivi militari avevano smesso di funzionare, chi si trovava in città non poteva nemmeno ricevere gli allarmi per gli attacchi missilistici. Sono crollati i primi edifici a causa dei bombardamenti con i missili cruise, e sono apparse le prime notizie di vittime di guerra.
Inizialmente la famiglia di Maksim aveva deciso che nascondersi nel seminterrato dell’edificio non fosse opportuno, visto che significava non avere né acqua né cibo e respirare aria malsana, oltre al rischio di rimanere intrappolati sotto le macerie di un palazzo di nove piani. Quali erano le probabilità che un missile mancasse l‘edificio e che quest’ultimo non crollasse? Per questo avevano deciso di restare nell’appartamento, occupandone la parte più interna, lontano dalle finestre, finché un giorno un missile ha centrato il palazzo… Ma su questo torneremo più tardi, fino a quel momento Maksim aveva seguito il suo istinto, cercando di destreggiarsi tra la vita e la morte.
“Eri terrorizzato?” A questa domanda Maksim si prende un attimo per riflettere: “Non direi che fossi terrorizzato. Puoi essere spaventato se resisti in qualche modo, fuggendo o combattendo. Ma noi non potevamo far nulla, la città era circondata dal nemico”.
Rimasti senza elettricità e possibilità di comunicare, Maksim e la sua famiglia hanno cercato un modo per mettersi in contatto con altre persone e uscire dal vuoto di informazioni in cui si trovavano. Un giorno, nei sobborghi della città, Maksim ha visto un ragazzo con un telefono in mano che stava correndo verso un edificio con diversi piani. Apparentemente, ai piani superiori di questo palazzo di Pryazovske – un villaggio a circa 10 km da Mariupol e al momento non ancora occupato – era ancora possibile ricevere un segnale telefonico. Per la prima volta dall’inizio della guerra Maksim poteva chiamare qualcuno: “Prima ho chiamato un collega, poi qualche telefonata veloce a parenti, amici e altri colleghi. Dovevo conservare la batteria. Volevo semplicemente far sapere che ero vivo”.
Purtroppo alla fine di marzo il villaggio è stato occupato, e Maksim – con altri abitanti – è rimasto senza alcuna connessione col mondo esterno.
Ci spiega quindi come vivere nella privazione completa porti la gente a trovare modi efficaci per sopravvivere. Anche se all’inizio della guerra ogni famiglia viveva in maniera indipendente, presto tutti hanno compreso che era impossibile sopravvivere da soli. È molto più facile affrontare la maggior parte dei problemi assieme, come un gruppo.
“Le persone sono state costrette a unirsi; qualcuno può avere qualcosa di cui altri hanno bisogno, e viceversa. Alla fine quasi tutti i residenti nell’edificio di nove piani hanno iniziato a lavorare assieme, mentre in pochi si sono isolati”.
Unendosi, i residenti del palazzo hanno risolto il problema dell’elettricità, comprando un semplice ma efficace generatore a benzina, che consentiva almeno di caricare il telefono. Vodka, vino e sigarette sono diventati moneta di scambio. In seguito si riempiva il generatore con la benzina ottenuta scambiando la vodka. Tre litri di benzina erano sufficienti per caricare al 40% i telefoni di tutti.
“Abbiamo anche cucinato assieme, inizialmente all’esterno, vicino all’edificio, ma con l’aumentare dei bombardamenti abbiamo ricavato una cucina nel seminterrato; con dei mattoni abbiamo costruito una stufa, e parti del tetto sono state impiegate come tubo di scarico per fare uscire il fumo. Raccoglievamo acqua piovana per lavare le mani e i nostri piatti, ma ci serviva un pozzo per avere acqua potabile, e il più vicino era a tre chilometri e mezzo di distanza”.
Una persona non poteva portare più di 30 litri d’acqua, quindi hanno utilizzato ciò che si poteva per costruire una specie di trolley: un fondo in legno e del metallo ai lati, e le rotelle prese da un bidone della spazzatura. In quel modo una persona poteva portare 120-150 litri ad ogni viaggio.
Il tragitto fino al pozzo era sotto un continuo bombardamento, quindi c’era il rischio concreto di non far ritorno. “Ma cosa si poteva fare? L’acqua è necessaria”, dice il nostro collega. “Andavamo la mattina il più presto possibile, alle 4 o alle 5, ancor prima che terminasse il coprifuoco. Non si poteva uscire di casa tra le 18 e le 6 del mattino, ma quello era l’orario nel quale i bombardamenti si fermavano, per poi riprendere quando il coprifuoco era terminato”.
Si andava a rotazione a prendere l’acqua, e bisognava sempre contare sulla fortuna per farcela. Uno di questi viaggi avrebbe potuto essere l’ultimo anche per Maksim, visto che un missile è esploso a circa 500 metri da lui, e l’onda d’urto lo ha gettato a terra. Purtroppo coloro che erano più vicini al missile non sono sopravvissuti.
“La guerra e i missili sono diventati parte della nostra vita quotidiana; a un certo punto non ricordavo nemmeno più che in precedenza non era così”, sospira Maksim.
Restava un solo obiettivo: sopravvivere, soddisfare in qualche modo le necessità basilari di un essere umano, avere dell’acqua, tagliare legna per il fuoco, trovare e scambiare cibo, e altre necessità. Il tutto con una minaccia sempre presente sullo sfondo: un proiettile che ti colpisce o un missile che esplode.
La storia della famiglia di Maksim è veramente miracolosa. Quando l’acqua si è congelata a causa del freddo e della mancanza di riscaldamento, si sono recati da alcuni parenti, che vivevano in una casa privata, per poter riscaldare l’acqua. Al ritorno hanno scoperto che un missile aveva centrato l’ingresso del palazzo, attraversandolo completamente. Solo chi si trovava nel seminterrato o non si trovava nell’edificio, come Maksim, era sopravvissuto. Tralasciamo le orribili scene che il giovane ingegnere e la sua famiglia si sono trovati davanti.
L’abitazione della famiglia di Maksim era distrutta, e la loro automobile piena di fori. “È un miracolo essere ancora vivi. Siamo fortunati che quel giorno abbiamo deciso di uscire di casa. Se l’acqua non si fosse congelata saremmo rimasti a casa, e io non sarei vivo”.
Ci sono voluti un paio di tentativi per Maksim per riuscire a fuggire da Mariupol. Il 6 marzo, quando le strade in uscita dalla città erano aperte, l’auto di famiglia funzionava ancora. Ma c’erano talmente tanti rifugiati che sembrava impossibile che arrivasse il tuo turno. La gente aspettava per tre, quattro giorni consecutivi. La famiglia di Maksim ha deciso di aspettare un po’, sperando che la confusione diminuisse. Ma purtroppo i soldati russi nel frattempo hanno circondato la città e le strade sono state chiuse nuovamente.
Alcuni abitanti hanno cercato di fuggire evitando le strade principali e ignorando il pericolo di finire sopra una mina, e qualcuno ce l’ha fatta. A questo punto il percorso da essi seguito diventava una sorta di corridoio verde, con persone che informavano gli altri dell’esistenza di strade sicure e senza mine. La famiglia di Maksim aveva intenzione di usare una di queste, ma ormai la loro automobile era troppo danneggiata. Anche dopo qualche riparazione ‘fai da te’ con pezzi improvvisati, la macchina non era in grado di andare oltre i 40 km/h, dovendo inoltre tenere una portiera chiusa manualmente e con i finestrini tenuti assieme con dei rametti.
Maksim afferma che inizialmente la gente ha cercato di fuggire verso altre città ucraine, ma dopo che Mariupol e le zone circostanti sono state occupate è diventato più facile fuggire verso la Russia. A un certo punto un corridoio umanitario è stato aperto e c’era la possibilità teorica di andarsene, perciò Maksim ha deciso di agire.
“All’inizio pensavamo di andarcene tutti assieme, ma poi abbiamo compreso che senza un’automobile era più semplice farlo individualmente; c’è una probabilità maggiore di successo facendo autostop ed è più facile trovare un posto singolo per una persona su un autobus”. Il 15 aprile, alle 8 di mattina, la fuga di Maksim da Mariupol è iniziata.
Sono stati attraversati numerosi checkpoint per raggiungere Donetsk, in un territorio occupato dai russi. Successivamente la strada in direzione di Mosca, dove Maksim ha qualche parente, e quindi la destinazione finale: la capitale della Lituania, Vilnius, anche se non aveva idea di come poterci arrivare.
“Mi sono spostato soprattutto a piedi, e ogni tanto qualcuno mi dava un passaggio. Non essendoci connessione internet e non potendo utilizzare il sistema di navigazione, ho seguito i cartelli stradali”, ci spiega Maksim. Rammenta come i momenti peggiori fossero i checkpoint, che non avevano nulla in comune con dei controlli in un mondo civilizzato; erano molto più simili a una rapina. “Toglievano tutto dallo zaino, svuotavano il portafoglio, rubavano soldi, orologi e oggetti di valore. Controllavano anche i telefoni: fotografie, chat, social media. Se avevano il minimo sospetto, le conseguenze potevano essere molto serie. I soldati ti costringevano a fare le flessioni, a cantare l’inno russo…”
Maksim cercava di evitare questi checkpoint, allontanandosi e passando a un centinaio di metri da essi, ma non ha avuto sempre successo. A un controllo gli è stato tolto del denaro, i soldati russi lo hanno chiamato “fascista ucraino” e interrogato per un’ora, cercando di fargli confessare cose compromettenti. “Ho capito che non c’era una risposta giusta da dargli e ho pensato che la cosa migliore fosse dire qualcosa che si avvicinasse alla verità, senza entrare troppo nei dettagli. Sto andando a trovare dei parenti, questo è tutto. Parlavo solo quando mi facevano una domanda”.
La sera, alle 22:00 circa, Maksim ha finalmente raggiunto il confine con la Russia, a Novoazovsk. Fortunatamente qui le guardie trattavano i rifugiati come esseri umani. Le condizioni nelle quali si ritrovavano, paragonate a Mariupol, sembravano paradisiache: una tenda calda, luce, acqua e perfino un dottore.
Il controllo dei documenti durava all’incirca otto ore. Alle 6 del mattino successivo Maksim era sul lato russo del confine. “Nei documenti avevo scritto che il mio scopo era di transitare attraverso la Russia. Nessuno mi ha chiesto di essere più preciso e rivelare dove stessi andando”.
La sera del 16 aprile Maksim ha raggiunto Taganrog, spostandosi a piedi, in autobus e anche in taxi con altri passeggeri. Ha impiegato un giorno per arrivare a Mosca – dove vive la madrina di Maksim – da Rostov-on-Don.
“Lei è una di quelle persone che sono imbarazzate da quel che il suo Paese sta facendo. In Russia molta gente appoggia l’Ucraina, ma è pericoloso farlo pubblicamente. Puoi essere condannato a otto anni di prigione perché inneggi alla pace. La polizia è dappertutto, in cerca di persone da arrestare”.
Maksim ha trascorso quattro giorni a Mosca, cercando un modo per raggiungere la Lituania. A causa delle sanzioni non c’erano voli diretti, pertanto ha dovuto prima prendere un volo per Yerevan, in Armenia, quindi Varsavia in Polonia e da qui, finalmente, in Lituania. Il 24 aprile l’arrivo all’aeroporto di Vilnius.
“Non posso dire di essere tranquillo, la mia famiglia è ancora in Ucraina. Ogni tanto riescono a connettersi a internet e a contattarmi. Cerco di convincerli ad andarsene, e credo che un giorno riusciranno a fuggire da Mariupol”.
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